Un rituale, un viaggio intimo, violento, erotico, perduto. Un corpo che cerca un altro corpo, una voce che prega il vuoto, un desiderio che muta e travolge. Tre atti come tre stanze chiuse, piene di simboli, di visioni che bruciano, che inciampano, che resistono.
Il primo atto è una soglia. Qui inizia la trasformazione. Le maschere diventano pelle, il volto si dissolve. Tutto è in bianco e nero, scavato, severo. Il gesto si fa marionetta, il corpo si distanzia da sé. È la preparazione, l’invocazione. Il buio è il primo spazio del desiderio.
Il secondo atto è un incendio. I colori esplodono, la carne si offre, la messa in scena si fa erotica e viscerale. È il momento della febbre, della visione deformata. Qui il desiderio si fa eccesso, rito e spettacolo, illusione e fame. Il corpo non recita: è.
Il terzo atto è la fine che non consola. È il ritorno al nero, alla maschera che ormai è diventata silenzio. Il desiderio non si placa, si distacca, si consuma in assenza. C’è una grazia tragica in questo ritorno, come un’eco che non si può spegnere. La distanza è il nuovo volto.
Una dedica muta, come se l’arte fosse l’unico modo per non smettere di chiamare. Anche se nessuno risponde.